di Massimo Volpato
A Milano nel 1934 si gioca Italia-Grecia, una partita preparatoria ai mondiali 1934, gli azzurri vincono per 4-0. In quella partita scende in campo con la maglia azzurra un giocatore triestino che farà la storia del Milan: Nereo Rocco.
Grazie a questa presenza, ottiene il patentino da allenatore. All’epoca il regolamento prevede che basta una sola presenza in Nazionale per conseguirlo, professione che lo porta sul tetto del mondo calcistico.
Il padre ha una macelleria a Trieste, esistente ancora adesso, il nonno si chiama Ludwing Roch e fa il cambiavalute a Vienna, si è trasferito nelle bella città giuliana per amore di una ballerina spagnola. Da qui il suo cognome è stato italianizzato e diventa Rocco. Il giovane Nereo con il suo fisico imponente gioca a calcio, aiuta il padre in bottega e studia pianoforte.
“Trecento lire per giocare in casa e quattrocento lire per giocare fora. Ero uno dei giovanotti più ricchi di Trieste” (N. Rocco)
Per quanto il padre lo osteggi, dicendo che il pallone non gli avrebbe dato da mangiare, lui non lo ascolta e va dritto per la sua strada e decide ugualmente d’intraprendere la carriera da calciatore: nel 1927 esordisce con la Triestina e farà una carriera discreta da giocatore.
Ma è quando Nereo Rocco decide di passare dall’altro lato della barricata che diventa leggenda. Si siede per la prima volta sulla panchina della squadra della sua città nel 1947. Una squadra che è retrocessa e che non avrebbe dovuto giocare nella massima serie ma che per una situazione un po’ particolare, in un’Italia ancora allo sbando dopo la seconda guerra mondiale, viene ripescata. A fine anno, con il giovane Rocco in panchina, arriva seconda, dietro solo al Grande Torino che vince il campionato. Un risultato incredibile e dire che il giovane Rocco quell’incarico lo ha accettato gratis. Per amore, solo per amore. E’ ufficialmente nato un grande allenatore, sta per diventare il Paròn, ovvero il capo.
E’ il suo carattere a portarlo alla ribalta, perché Nereo è abituato a rimboccarsi le maniche e a lavorare. E’ abituato a fare le nozze con i fichi secchi, e se non ci sono neppure quelli, pazienza, in qualche modo si fa lo stesso. Le sue squadre non sono mai state piene zeppe di campioni, eppure davano sempre l’anima in campo. Ed era quello che faceva la differenza.
Sempre vero, sempre autentico. Senza mai dover mettere una parola fuori posto o qualcosa di sbagliato. Questo è Nereo Rocco: burbero, ma simpatico. Ma soprattutto, un grande uomo di sport.
Nel 1954, dopo tre stagioni anonime nella mia amata Treviso dove conosce Gipo Viani, ritorna per una stagione a Trieste e poi saluta definitivamente la città giuliana e va a Padova. La squadra patavina naviga nelle torbide acque della serie B e che non sono nemmeno tanto buone. Rocco riporta la squadra biancoscudata in alto, ovvero in serie A e nel 1957-58 i biancorossi arrivano addirittura terzi in classifica. E’ una sorta di Re Mida, che riesce a tirare fuori dalle sue squadre sempre il meglio. Stuzzica la stampa, e di tanto in tanto preferisce prendersi su di se le responsabilità. Come quando, prima di un Padova-Juventus, con i bianconeri strafavoriti, qualcuno lo avvicina:
“Vinca il migliore, signor Rocco“. “Speriamo di no“, la laconica risposta del Paròn.
“Un giocatore invecchia precocemente se si sente abbandonato” (N. Rocco)
Questa è un’altra delle grandi capacità di Nereo Rocco: tirare fuori il meglio da giocatori non più nel fiore degli anni, da giocatori che si pensava avessero già dato il meglio. Ma, con quel demonio in panchina, chiunque riesce a dare qualcosa in più di quello che ha.
Dopo il Padova, nel 1961 arriva la chiamata che fa svoltare la carriera di Nereo Rocco definitivamente verso la Storia. E’ il Milan, che tanto dovrà al suo Paròn.
“Signori miei, io ho sbagliato squadra e voi avete sbagliato allenatore. Questo è il vostro contratto grazie e arrivederci” (N. Rocco)
E qui che l’avventura di Rocco diventa straordinaria, anche se all’inizio le cose non vanno bene, la squadra è discontinua, non riesce a legare con il centravanti inglese Greaves, e a fine girone d’andata il Milan ha cinque punti di ritardo dai cugini neroazzurri. Il clima è teso, dopo aver convinto Gipo Viani a rispedire a casa l’inglese, con l’avvento di Sani la squadra migliora, Rivera è più libero di creare e a fine anno sarà scudetto.
Nonostante la fiducia dell’allora presidente Rizzoli, gli scontri con il dt Viani sono accessi, uno dei più famosi è su Altafini. Per Viani, Altafini non deve giocare, Rocco minaccia le dimissioni, l’intervento del presidente in una cena a casa Viani nel trevigiano, ricompone la frattura e Josè Altafini segna i gol che danno lo scudetto ai rossoneri.
Quel Milan è una grande squadra piena di talenti, con Rivera e Altafini a fare spettacolo in avanti, Trapattoni e Sani a fare legna e disegnare geometrie a centrocampo. Poi Maldini, Radice, Salvatore, insomma tutti gli ingredienti per portare a casa il titolo della Serie A. Ma il capolavoro deve ancora arrivare, perché la stagione seguente Nereo Rocco porta il Milan là dove nessuna italiana era mai giunta prima: alla vittoria della Coppa dei Campioni.
“Chi no xe omo, resti sul pullman“. (N. Rocco)
Succede il 22 maggio del 1963. Quel giorno i rossoneri entrano a Wembley, il tempio del calcio europeo, per contendere la Coppa dei Campioni al Benfica di Eusebio. Nereo Rocco, sul bus che porta la squadra allo stadio, prende la parola. “Chi non è uomo, resti sul pullman. Chi ha paura, non scenda neanche i gradini del bus”. Quando i giocatori del Milan scendono a uno a uno dal bus, è rimasta una sola persona a bordo del mezzo. E’ lui, el Paron, che scoppia a ridere insieme a tutta la sua squadra. E’ un modo per affievolire la tensione. La doppietta di Josè Altafini stende i portoghesi e regala la prima Coppa dei Campioni al calcio italiano.
Proprio Josè Altafini, quello che il Paròn chiama affettuosamente coniglio, per la sua tendenza a scomparire di tanto in tanto quando il gioco si fa duro.
Ma per Altafini, e per i numeri 10, l’allenatore triestino, prova una attrazione fatale. I numeri 10 come Rivera, che con il Paròn troverà la sua definitiva consacrazione.
“Mi fazo catenaccio, lori xe prudenti.” (N. Rocco)
Perchè, la prima parola che viene in mente parlando del calcio di Nereo Rocco è catenaccio, ma il suo calcio non era solo quello. Certo, c’è stata l’aggiunta di quell’uomo in più davanti alla difesa, per rinforzare la squadra dagli assedi degli avversari. C’è stata l’invenzione del palla lunga e pedalare. Ma il catenaccio di Nereo Rocco non è nient’altro che un modo per affrontare avversari spesso più dotati tecnicamente. Il Paròn si mette dietro, aspetta gli avversari, e li punisce con le ripartenze. Bello questo catenaccio, ci fa vincere le partite. Alla fine, quello conta, nel calcio. Le critiche al suo gioco non gli interessano, anche se ogni tanto, con nonchalance, lo fa capire, “Io faccio catenaccio, gli altri sono prudenti.” Già, questo è il destino dei vincenti, attirarsi addosso gli sguardi di tutti, e non sempre sono benevoli.
E con il Milan il Paròn vince, eccome se vince. Dopo una parentesi al Torino, ritorna sulla panchina rossonera.
Le tre stagioni con il Torino non sono entusiasmanti però, e malgrado i tentativi di Nereo, la squadra non gira molto bene se non per un terzo posto nel 1965. E i miracoli non sempre riescono in un Torino onesto e volenteroso, ma non certo eccellente in quegli anni.
Nereo coglie quindi l’occasione di tornare al Milan, nel frattempo alla presidenza del Milan non c’è più Felice Riva, uno dei motivi dell’abbandono dopo Wembley ma Luigi Carraro. Negli anni granata del Mister di Trieste, il Milan non è riuscito più a vincere nulla e a Milano ritrova tanti suoi vecchi discepoli: Rosato, Rivera, Hamrin per citarne qualcuno. Il tocco di Nereo però è ancora magico. La prima stagione del suo ritorno vince il nono scudetto rosso nero, oltre alla vittoria della Coppa delle Coppe. Per poi fare un incredibile “bis” in Coppa Campioni l’anno seguente, una marcia trionfale dove spiccano le imprese di Glasgow e Manchester, con un secco 4-1 in finale contro l’Ajax con una tripletta di Prati. E finalmente anche nella Coppa Intercontinentale, nella partita passata alla storia come la battaglia della Bombonera. La sera del trionfo in Argentina Rocco si guarda attorno e dice:
“Adesso ci manca solo la stella del decimo scudetto”
Gli anni seguenti raccontano di un Milan sempre competitivo su tutti i fronti, alla ricerca del decimo scudetto e prova a raggiungerla. Ma invano: come l’araba fenice, il più ambito riconoscimento continua a sfuggirgli e per due volte i rossoneri finiscono ad un solo punto dalla Juventus tra un mare di polemiche e la Fatal Verona.
Riesce comunque a conquistare due Coppa Italia e la seconda Coppa delle Coppe.
Ironia della sorte, Nereo non vedrà mai quella stella sul petto dei rossoneri. Quando nel maggio del 1979 il Milan vince il suo decimo scudetto, il “Paron” se n’è andato da appena due mesi.
Una vita vissuta in panchina, che non si dimentica tanto facilmente. “Dame el tempo“, le ultime parole, sussurrate al figlio Tito che lo assiste al capezzale, prima di spegnersi il 20 febbraio del 1979, a Trieste.
Dame el tempo, come quando chiedeva ai suoi collaboratori quanto mancasse al termine della partita. Quella panchina sulla quale tante volte si è seduto. 787 volte, per la precisione. Record superato nel 2006 da Carletto Mazzone, che sarebbe poi arrivato a 795. Tre mesi dopo la sua morte, il Milan di Gianni Rivera conquista il decimo scudetto, quello della stella, quello che al Paròn è sempre sfuggito. Una stella dedicata alla stella più luminosa della panchina. A mister Rocco. Anzi, al signor Rocco.
"Mister te sarà ti mona, mi so el signor Rocco
"
“Mister te sarà ti, mona. Io sono il signor Rocco” (N. Rocco)
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