di Donato Giallo
"Nella vita niente è sicuro finché non accade": di certo il primo Ottobre del 1966, quando nacque in una poverissima baraccopoli di Monrovia, George Weah non poteva immaginare che sarebbe diventato uno degli attaccanti più forti ed influenti della storia del calcio, primo non europeo a vincere il pallone d’oro.
Dopo sette stagioni in Francia, trascorse tra Monaco e PSG, Weah approda al Milan nell'estate del 1995. È un Milan avviato verso la fine di un lungo ciclo, che di lì a poco darà l’addio definitivo al più forte degli attaccanti che si sia mai visto in maglia rossonera, Marco Van Basten.
Eppure Weah ci mette pochissimo ad entrare nel cuore dei tifosi rossoneri: sei minuti, stacco di testa imperioso per il gol dello 0-1 in quel di Padova (cui seguirà l’assist del definitivo 1-2 a Baresi). La stagione consacra Weah agli occhi del mondo. Tassello fondamentale nella conquista del 15° scudetto, King George si dimostra un attaccante completo, moderno, verticale, utile in ogni zona nel campo. Colui che meglio di chiunque altro incarna l’evoluzione dal modello Van Basten al modello Ronaldo.
In questo primo anno di Milan, ancora indenne dai problemi alla schiena che lo affliggeranno nelle stagioni successive, Weah sprigiona una fisicità devastante abbinata a tecnica “da numero dieci” ed imprevedibilità invidiabile. È forse questa la caratteristica che più rimane negli occhi, l’istintività pura di leggere ed immaginarsi prima il gioco, la capacità di anticipare le mosse degli avversari, di mandarli fuori tempo con una finta o un dribbling, di coglierli con il peso del corpo dalla parte sbagliata. A chi, come noi, ha memoria di quegli anni resterà per sempre il rimpianto di non aver potuto ammirare in coppia il Weah del 95/96 con il Savicevic della stagione precedente. Due universi meno distanti di quanto si possa pensare.
Non tanti in quel primo anno i gol, 11 in 26 partite, ma alcuni pesantissimi, come i tre segnati nelle due trasferte vittoriose di Roma. Ecco, i gol. Nell’immaginario del tifo rossonero, Weah non siede ai lati di Van Basten e Shevchenko per una minore prolificità sotto porta. Certamente vero, anche se chi ha visto quanto “si sbatteva” Weah non può non considerare positivamente la media gol di una rete ogni due partite e mezza.
Ciò è a maggior ragione vero se si valutano le due stagioni successive, sciagurate per un Milan comunque trascinato dal liberiano nelle poche gioie di quegli anni. Al netto dei già citati problemi alla schiena, restano negli occhi prestazioni in cui è l’ultimo ad arrendersi: pensiamo alla gran doppietta in un Milan-Samp 2-3 del 97, alla tripletta contro l’Atalanta, al celebre coast to coast o al gol – rivelatosi poi inutile – in finale di Coppa Italia contro la Lazio nel 98. Le sei giornate di squalifica rimediate per la testata a Jorge Costa nell’autunno del 96, inoltre, costano probabilmente al diavolo l’eliminazione dalla CL, che si consuma ad opera del modesto Rosenborg – squadra che Weah e Simone avevano strapazzato nella gara di andata in Norvegia.
L’ultima stagione da protagonista, la 98/99, è quella in cui Weah mostra attaccamento alla causa più che mai. Spostato in fascia da Zaccheroni a 32 anni suonati, con una brillantezza atletica ormai in declino, King George offre il suo prezioso contributo realizzando sei gol decisivi su otto, gli ultimi due pesantissimi contro la Juventus in trasferta. Sarà lo scudetto numero 16 per il Milan.
Prima di essere ceduto al Chelsea, fa in tempo a regalare ai tifosi rossoneri la gioia di un derby vinto al 90’. È il 23 ottobre del 1999: nello stesso incontro, pareggiando la rete di Ronaldo, un ragazzino ucraino segnerà il primo gol in un derby. Il primo di una lunga serie.
Calciatore iconico degli anni 90, Weah ha rappresentato l’elemento di rottura ed eccezionalità in un calcio che andava facendosi sempre più tattico. E lo ha rappresentato con la leggerezza, l’umiltà e la generosità tipiche di chi è figlio di mamma Africa, diventando anche per questo un punto di riferimento per chi è venuto dopo.
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